Crisi chiama crisi
L’impiegato dello Stato si trova da diversi decenni al centro di tre pressioni convergenti che si intrecciano
e si alimentano a vicenda: mediatica, politica, imprenditoriale. Tali pressioni non nascono spontaneamente,
ma sono l’espressione di poteri che, nel tentativo di superare le proprie crisi interne, eleggono
lo “statale” a bersaglio privilegiato. Ma come colpirlo? Semplice: eleggendolo a simbolo d’inefficienza.
Il risultato di quest’attacco congiunto è che anche la Pubblica Amministrazione e i suoi dipendenti entrano in crisi.
Ma quali sono gli interessi che determinano quest’altra crisi?
L’interesse dei media
In un contesto di costante e drammatico calo di vendite dei quotidiani e dove la lotta per la sopravvivenza
delle testate si gioca in termini di attenzione, abbonamenti e click, la narrazione scandalistica diventa merce preziosa.
Perciò giù manganellate (mediatiche) per ogni episodio di mala burocrazia e, di contro,
guanti di velluto per gli episodi di mala imprenditoria (comprese le morti sul lavoro che sono trattate in maniera neutra).
L’impiegato pubblico è allora dipinto come un privilegiato scansafatiche, un ostacolo alla modernizzazione del Paese,
una zavorra che grava sul contribuente. Dato che gli impiegati pubblici sono oltre tre milioni
e che la Pubblica Amministrazione è una struttura complessissima, la narrazione giornalistica si caratterizza
come una favola in cui il cattivo è lo statale (parola diventata quasi un insulto), il buono invece
è l’imprenditore (parola quasi divinizzata). Una favola utile ai media per catturare l’attenzione del grande pubblico
e tenersi a galla sul mercato. Una favola perché semplice, emotiva, moralmente polarizzante.
L’interesse della politica
È anch’esso chiaro: contenere la crisi dei partiti continuando a gestire la macchina dello Stato,
accodandosi alla narrazione dominante e tentando di risolvere gli annosi problemi della Pubblica Amministrazione
con un susseguirsi incessante di riforme… nessuna delle quali va a buon fine. In breve: la crisi della rappresentanza
e la perdita di fiducia nelle istituzioni spingono i partiti a riaffermare il proprio ruolo di arbitri della società soprattutto
tramite la gestione delle risorse statali. Così, mentre pubblicamente si attacca la Pubblica Amministrazione
abbracciando la retorica dello statale fannullone, dietro le quinte la macchina dello Stato rappresenta il luogo
privilegiato per esercitare il potere che l’economia ancora lascia in mano alla politica.
Un potere di solerti amministratori, ma pur sempre un potere.
L’interesse dell’imprenditoria
La spinta a demolire la reputazione dello statale è mossa dalla necessità di trovare nuovi spazi di profitto
in un’economia lungamente stagnante come quella italiana. Dopo decenni di politiche neoliberiste,
che hanno impoverito il settore pubblico e indebolito i diritti dei lavoratori, il passo successivo è la conquista
di nuovi mercati attraverso la privatizzazione dei servizi pubblici. Ma per privatizzare occorre far passare l’idea
che il settore pubblico sia il regno dell’imperfezione e quello privato il regno della perfezione. Perciò le vie per accedere
al paradiso dell’efficienza sono: taglio delle spese, esternalizzazioni e aziendalizzazione dei servizi pubblici.
Processi in atto da decenni, che non hanno migliorato la qualità dei servizi pubblici ma di sicuro hanno permesso a
tanti imprenditori di restare sul mercato e ad altri di fare fortuna. Ovviamente: a scapito degli interessi della collettività.
Crisi sociale scaricata sui più deboli
In questa congiuntura, la figura dello statale diventa il capro espiatorio su cui scaricare colpe e frustrazioni del continuo
susseguirsi di crisi economiche; il bersaglio perfetto su cui far convergere un discorso pubblico
che si alimenta di semplificazioni, stereotipi, ignoranza. Quelle che sono tre istituzioni fondamentali della società
– media, politica, impresa – utilizzano la retorica della produttività e della meritocrazia come grimaldello
per attaccare l’impiegato pubblico, attribuendogli responsabilità che travalicano il suo ruolo e le sue possibilità
(se un servizio pubblico non funziona quasi mai la responsabilità è dello sportellista). Il risultato? Un progressivo
indebolimento dell’immagine dell’impiegato pubblico. Lo statale viene progressivamente spogliato di prestigio,
autorevolezza, dignità professionale. Viene trascinato nel vortice della crisi di una società che non funziona,
non per sua colpa, ma per effetto della crisi degli altri: stampa, politica, impresa.
@ https://milano.uilpa.it/ di Patrizio Paolinelli