Se le parole fossero persone qualche volta dovrebbero chiedere un risarcimento per diffamazione.
È il caso del termine “statale”. Tale termine ha subito negli ultimi decenni una radicale trasformazione
del proprio significato: da positiva indicazione di appartenenza al pubblico impiego si è caricato
di una connotazione profondamente negativa.
La svalutazione è tale che persino i sindacati dei lavoratori pubblici evitano di chiamare i propri iscritti “statali”.
La domanda da porsi allora è: chi ha “minato” il terreno attorno a questa parola? Non è difficile rispondere.
Gli artefici principali sono la stampa e la classe politica. La stampa perché ha condotto una permanente
campagna di delegittimazione della figura dell’impiegato dello Stato partendo da episodi di inefficienza
per trasformarli in simbolo di un’intera categoria di lavoratori. La classe politica perché ha abbracciato
la narrazione mediatica e perché governa la macchina amministrativa dello Stato.
Naturalmente, non tutti i politici pensano e agiscono alla stessa maniera, ma anche quelli armati di buone intenzioni,
non sono riusciti a risolvere gli annosi problemi della Pubblica Amministrazione.
Distruggere le parole serve a distruggere le cose a cui si riferiscono. Innanzitutto l’identità di un gruppo.
Nel caso degli statali l’interdizione linguistica ha conseguenze concrete. Se si vieta di fatto l’uso di un nome collettivo,
si intacca anche la possibilità per quel gruppo di riconoscersi, di essere riconosciuto, di essere compreso
e giudicato per quel che è e per quel che fa davvero. E non basta sostituire un nome con un altro,
da statali a lavoratori pubblici, affinché tutto resti come prima. Nient’affatto.
Le parole seguono il corso della storia e nessun cambiamento di nome è senza conseguenze pratiche.
A qualcuno queste considerazioni potrebbero sembrare una questione di lana caprina, ma non è affatto così.
La formula “lavoratori pubblici” fa dello statale un lavoratore come un altro, cioè una merce sul mercato del lavoro
come è per i dipendenti privati. E per questa via passa clandestinamente la logica del profitto anche nel servizio pubblico.
Cambiando il nome cambia una cultura del lavoro. Non si è più al servizio della nazione, si è al servizio di un’azienda
che incidentalmente si chiama ministero, Inps, Inail e così via. È questo uno dei tanti modi per indebolire,
più di quanto non sia già debole, l’economia pubblica a favore dell’economia di mercato.
Chiunque si occupi di Pubblica Amministrazione ha in mente molti dibattiti televisivi in cui i partecipanti
(giornalisti, politici, economisti, giuslavoristi ecc.) parlano del pubblico impiego mostrando, ad andar bene,
una scarsa conoscenza del settore. Se nel dibattito è presente qualche sindacalista le sue argomentazioni
sulla realtà effettiva del lavoro pubblico sono compresse dai sempre più rapidi tempi televisivi
e sepolte dalla solita raffica di critiche da parte degli altri partecipanti.
In breve, dopo anni di confronti radio-televisivi il risultato è che si è arrivati a falsare la soggettività stessa
dei dipendenti dello Stato, aprendo la strada a un dibattito pubblico superficiale e grondante pregiudizi.
Un dibattito che: raramente comprende la situazione concreta del lavoro nella Pubblica Amministrazione;
non distingue tra chi nel pubblico impiego ha perso prestigio e chi lo ha conservato;
e troppo spesso si accontenta di stereotipi.
Per capire quanto sia fuorviante il chiacchiericcio mediatico sulla figura dello statale si consideri che
sotto questo marchio d’infamia non ricade chiunque abbia un contratto di lavoro subordinato
con la Pubblica Amministrazione, come, per esempio, un ambasciatore, un docente universitario, un generale dell’esercito,
e neanche ci ricade un archeologo o un carabiniere.
Quando si attaccano gli statali, il pensiero va automaticamente ai lavoratori che occupano gli ultimi gradini
della gerarchia negli organigrammi del pubblico impiego: impiegati comunali, piccoli funzionari ministeriali, archivisti,
sportellisti, bibliotecari, autisti, operatori ecologici e altre figure simili. In definitiva è su coloro che hanno stipendi
coi quali non si arriva a fine mese che stampa e politica indirizzano la rabbia dell’opinione pubblica
quando i servizi pubblici non funzionano.
E tuttavia sono proprio queste “formiche operaie” a garantire, con il loro lavoro quotidiano,
il funzionamento della macchina statale.
Naturalmente neanche questo apporto è riconosciuto e il risultato è che prevale lo stereotipo dello statale fannullone:
un privilegiato protetto dal posto fisso che lavora poco e male.
Si tratta di un’immagine che da molto tempo non corrisponde alla realtà, se mai vi ha corrisposto.
Ma come si è arrivati a consolidare in via definitiva lo stigma? Vediamo la vicenda delle Funzioni Centrali.
Secondo la Ragioneria Generale dello Stato (dati aggiornati al 12 dicembre 2024), questa categoria è passata da 330.401
dipendenti nel 2001 (9,4% sul totale della Pubblica Amministrazione) a 205.204 nel 2023 (6,2%).
Un drastico calo di personale originato da almeno dieci anni di riduzione, se non addirittura di blocco totale del turn over,
che ha lasciato nella maggior parte degli uffici pesanti vuoti di organico.
Vuoti che obbligano il personale a lavorare in condizione di perenne emergenza.
Inevitabilmente quest’affanno quotidiano contribuisce ai disservizi che l’utente registra in questo o quell’ufficio.
La responsabilità delle criticità della macchina dello Stato ricade interamente sulla classe politica che ha il compito di gestirla.
Per scrollarsi di dosso tale responsabilità una delle tecniche più collaudate è quella di costruire un capro espiatorio. Come si fa?
Nel nostro caso è semplice: si prende il segmento più debole del pubblico impiego, lo si qualifica arbitrariamente
come improduttivo e lo si contrappone a un’immagine idealizzata del lavoro privato dove tutti sono spacciati per iper-produttivi.
A questo punto il gioco è fatto: la parola statale non indica più l’appartenenza a un’organizzazione con i suoi pregi e i suoi difetti
così come si trovano in tutte le organizzazioni, ma un’etichetta dispregiativa che ricade prevalentemente
su chi sta in basso nella scala del reddito.
Le alte gerarchie si lavano la coscienza, l’opinione pubblica se la prende coi più deboli e la macchina dello Stato
continua a non funzionare come dovrebbe e come potrebbe.
